Questo articolo è pubblicato sul numero 2-3 di Vanity Fair in edicola fino al 14 gennaio 2025.
«Non sono mai stato interessante per le gallerie d’arte. E allora sono diventato la galleria di me stesso». Jacopo Cardillo, ormai solo Jago, è ostinato come il marmo che scolpisce. Da bambino scopre che costruire i giocattoli è molto più divertente che giocarci. Cresce picchiando sul suo chiodo fisso: creare con lo scalpello, alla maniera degli antichi maestri. Comincia dai sassi di fiume, perché non può permettersi altro. Per barattare più tempo al laboratorio si improvvisa modello di nudo a un corso di disegno dal vivo. Nonostante l’impegno, riceve soltanto rifiuti: «È roba vecchia, non piacerà a nessuno, non la venderai mai». Poi «l’intuizione felice: mettere sui social le foto delle sue opere, mentre il mondo posta istantanee di vita privata».
Oggi i suoi follower sono quasi un milione, continua a non essere rappresentato dalle gallerie d’arte, ma intanto apre musei, è il protagonista del documentario Jago Into The White presentato al Tribeca Film Festival, il numero uno di Apple Tim Cook va a conoscerlo, il Guardian lo considera «il nuovo Michelangelo». E le sue opere finiscono al Thomas Paine Park nel cuore di New York, nel deserto degli Emirati Arabi, in orbita sulla Stazione spaziale internazionale.
La sua Venere è anziana e calva, il suo Narciso è un uomo che si specchia in una donna, il suo Figlio Velato si ispira al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino e un compratore offre 22 milioni di euro per acquistarlo. Che piaccia o no ai critici, ha trovato la sua nicchia, ed è più grande di quello che vogliono credere.
Classe 1987, da Anagni in provincia di Frosinone, «paese medievale di una bellezza antica, pesante», Jago comincia a raccontare di quando era ancora Jacopo. «L’infanzia è stata semplice e spensierata: le partite di calcio al campetto dei preti dopo la messa, le armature dei pupazzi che costruivo con il fil di ferro plastificato con cui mia mamma chiudeva la busta della merenda che portavo a scuola. Mi dava soddisfazione assemblare, montare, creare con lo scotch, la carta igienica o quello che trovavo». I genitori assecondano il suo talento di fare con le mani: «Mio padre era architetto e scenografo, mia madre insegnante di educazione artistica alle medie. Sapevano spiegarmi i grandi maestri umanizzandoli: “Quello scultore è stato un bambino come te”, mi dicevano». A un certo punto la famiglia Cardillo ha difficoltà economiche serie: «Quando conosci la povertà, bisogna fare gruppo, appellarsi alla creatività per risollevare le sorti, mettere a fuoco i valori che contano». E rimboccarsi le maniche.
L’idea di una vita da artista bohémien non può essere contemplata. Jacopo s’iscrive all’Accademia delle Belle Arti, lascia l’Accademia delle Belle Arti. Va in Grecia per una borsa di studio, la borsa di studio non arriva e si ritrova a pulire i bagni di un ristorante in cambio del pranzo e della cena. Si mette in gioco per necessità. E la priorità resta guadagnare, «che voleva dire innanzitutto non spendere. All’inizio della carriera non c’era differenza tra vendere e regalare».
Gli ostacoli non lo piegano, le porte in faccia da parte del mondo dell’arte, che non apprezza le sue opere, non lo spezzano. Lui non smette di ingegnarsi. Un esempio su tutti: «Per un bel po’ ho suonato in un gruppo, il basso elettrico e il contrabbasso, mentre mio fratello la batteria. Componevo, registravo le mie cose. La musica è stato il primo ambito in cui si è parlato di autoproduzione. Ho pensato di applicare il modello all’arte. Le gallerie non mi volevano? Potevo mostrare ovunque quello che creavo grazie a Facebook, quando ancora nessuno lo faceva. Col tempo i follower sarebbero diventati community, la community sarebbe cresciuta in termini di età e di potere economico». Esiste sempre una strada alternativa. Esiste sempre un modo per scegliere chi essere. «E per ricordarmi di essere io l’unico a scegliere il mio destino, ho preso il mio nome di battesimo e l’ho messo da parte a favore di un suono che mi corrispondesse di più: Jago è il desiderio di affermare la mia libertà. Ormai mi chiama Jacopo solo mia moglie Michela quando si arrabbia e mi vuole redarguire».
Per tutti è Jago l’artista. «Anche se preferisco dire che sono un museo, identificarmi in un luogo piuttosto che in un’etichetta che ti attacchi sul petto per darti un tono o per giustificare ciò che fai. Pensarmi location è più sano, perché significa che devo buttare quello che non mi serve, essere accogliente, a una certa ora chiudere e a un’altra aprire».
Dice che la sua prima opera in marmo è una mano e che sua mamma ha conservato parecchio di quello che ha realizzato in precedenza: «Ha tenuto il disegno, molto stilizzato, di un feto, che probabilmente risale a quando avevo dieci anni». La scultura che invece l’ha fatto conoscere al mondo è il busto in marmo di Benedetto XVI spogliato dell’abito talare, Habemus Hominem del 2009, voluto da Vittorio Sgarbi per la 54esima Biennale di Venezia del 2010. L’opera su cui si sta concentrando ora s’intitola David: ispirata al capolavoro di Michelangelo, è la reinterpretazione in chiave moderna del mito di Davide e Golia. È monumentale, richiede circa due anni di lavoro, che si sta svolgendo al porto di Napoli all’interno dei Cantieri del Mediterraneo. Sul suo canale Instagram Jago sta documentando il making of. Una versione in bronzo dell’opera è in viaggio sulla nave della Marina Militare Amerigo Vespucci, in giro per il mondo in una specie di tour da rockstar che ha già raggiunto 15 Paesi e altrettanti ne visiterà nel 2025.
Tra la prima mano realizzata e David, un ventaglio di altre statue davanti alle quali Jago assiste alle reazioni più diverse: c’è chi le accarezza, c’è chi prega, ci sono i bambini che ci saltano sopra e ci sono i ragazzini che le imbrattano. Sono pronto al flagello, contro il razzismo, è stata addirittura distrutta a Roma davanti a Castel Sant’Angelo. Lui accetta tutto, compreso il vandalismo, perché è fermamente convinto che «le sculture siano contenitori dei significati attribuiti liberamente dalle persone». Tra le più eloquenti: Venere anziana e calva, «in quanto la venustà è uno stato dell’essere indipendentemente dall’età, che continua a esprimersi nonostante tutto»; Narciso che si specchia in una donna «per aprire una parentesi di riflessione sulla mancanza del punto di vista degli altri: ce lo possono anche raccontare, ma restiamo comunque lontani dal riuscire a fare l’esperienza dei loro occhi». E ancora: Look Down, un neonato rannicchiato in posizione fetale incatenato a terra «simbolo di quelli che sono stati lasciati incatenati nella loro condizione»; Aiace & Cassandra, che è un grido contro la violenza di genere «mostrando la forza di lei nell’atto di respingere lui per salvarsi».
Se adesso vi state chiedendo a quanto si potrebbero acquistare queste opere, state sbagliando ragionamento. Nel senso: il valore è di milioni e milioni di euro, ma, continua Jago, «io non cerco buyer, bensì partner, soci, a cui vendere solo una quota percentuale della scultura. È più interessante. Così creo opportunità». Che è il motivo per cui ha aperto lo Jago Museum all’interno della chiesa sconsacrata di Sant’Aspreno ai Crociferi nel Rione Sanità di Napoli, e ne vuole aprire altri. Perché il nocciolo della questione e della soddisfazione sta sempre lì, nella voce del verbo creare. Come quando da bambino scopri che costruire giocattoli è molto più divertente che giocarci.
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