Quale è oggi la situazione legata ai disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione? Per la prima volta dopo il Covid, i numeri annuali di anoressia, bulimia, disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (DNA) stanno lentamente rientrando, ma non siamo ancora ai livelli pre pandemia. Inoltre, «i dati raccolti negli ultimi anni evidenziano un aumento dell'incidenza dei disturbi alimentari in età pediatrica e adolescenziale», ha spiegato la dottoressa Valeria Zanna, responsabile dell'Unità operativa semplice di Anoressia e Disturbi Alimentari dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Concorda il Professor Giovanni Abbate Daga, ordinario Dipartimento di Neuroscienze "Rita Levi Montalcini" dell'Università di Torino e Direttore del Centro Esperto Regionale per i Disturbi Alimentari della Città della Salute e della Scienza di Torino: «La fiammata del Covid è stata veramente devastante, non solo in termini di numero dei casi di DNA: ha portato anche a un’età di esordio sempre più bassa, collegata peraltro a disturbi fino a pochi anni fa non ben conosciuti, come l’ARFID - disturbo evitante-restrittivo dell'assunzione di cibo».
ARFID: che cosa è
Il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione di cibo (avoidant/restrictive food intake disorder, ARFID) ha compiuto circa 12 anni dalla sua catalogazione: nel 2013 venne infatti introdotto nella 5° edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM V), nella nuova categoria dei Disturbi dell'Alimentazione e della Nutrizione.
«Non si è trattato di una scoperta vera e propria», commenta Abbate Daga. «Il disturbo naturalmente era già esistente, anche se i bambini e adolescenti erano chiamati schizzinosi a tavola o, con termine più rispettoso, selettivi. Nel 2013, l’ARFID è stato ufficializzato come malattia. Si tratta di un disturbo alimentare particolare, tipico dei bambini, anche piccoli (compare entro i dieci anni) e degli adolescenti. A differenza però dell’anoressia, nel caso dell’ARFID non esiste un problema di “vedersi grassi” o una negatività verso il proprio corpo, semplicemente c’è una mancanza di interesse per il mangiare, o l’evitamento del cibo su caratteristiche sensoriali del cibo stesso (sapore, odore, colore). Esistono tre caratteristiche di questo disturbo», continua Daga: «la prima è una inappetenza globale, cioè i ragazzi si sentono subito sazi e mangiano davvero molto poco. La seconda è un'avversione per tutta una serie di cibi, ma non in quanto grassi o ipercalorici, piuttosto in base a un gusto o a una consistenza particolare. Questo aspetto è ricollegabile all'autismo. Infine, la terza categoria (che si vede nelle persone anche un po' più adulte) è la paura per le conseguenze dell’alimentarsi: paura di vomitare, paura di deglutire e rimanere soffocati».
A che età colpisce l’ARFID?
«Abbiamo in genere una prima fascia di età che va dai 5-6 anni fino ai 13-14 e poi una seconda, sui 16-17 anni: questa è anche l’età in cui l’Arfid può sfociare in anoressia nervosa».
Che cosa comporta questo disturbo nella crescita del bambino?
«Può comportare diminuzione o disturbi della crescita, e addirittura malattie per mancanza di nutrienti, ad esempio lo scorbuto, causato della carenza di vitamina C». La «crescita del nostro corpo – spiega - ha un timing: avviene in momenti precisi, che giungono in una fascia determinata di anni. Se in quegli anni, dagli 8 - 9 ai 12 -13 -14 , si è malnutriti (questo capita anche nell’anoressia nervosa), avviene poi la calcificazione della cartilagine delle ossa e non si cresce più. Quindi si rischia di avere una statura minore rispetto a quella che dovrebbe essere per genetica».
Tra le cause anche fattori genetici?
«Le cause sono principalmente legate a traumi legati al cibo, come soffocamento o vomito, avversioni sensoriali, che rendono insopportabili certi sapori, consistenze o odori, infine può l'ARFID può trovare terreno fertile qualora già esistano particolari condizioni mediche o psicologiche concomitanti, che accentuano la difficoltà nell’affrontare l’assunzione di cibo. Inoltre la genetica è un fattore di vulnerabilità per tutti i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), (recentemente definiti Disturbi della Nutrizione e dell'Alimentazione - DNA), assieme ai fattori di rischio psicologici e sociali (tra cui, ovviamente tutti i social network). Alcune varianti genetiche aumentano il rischio di sviluppare un dca se si verificano alcune condizioni personali e ambientali. Recentemente la ricerca ha mostrato che mettono a rischio geni condivisi con i disturbi mentali (per esempio alcuni geni condivisi con il rischio di disturbo ossessivo compulsivo), altri geni sono condivisi con geni che hanno a che fare con il metabolismo: regolazione del peso, appetizione per i cibi, fattori ormonali».
Genitori: che cosa possono fare?
I genitori possono fare moltissimo. «Quando bambini così piccoli smettono di mangiare, con sintomi/conseguente come la notevole perdita di peso, evidenti segnali di deficit nutrizionale e anche una marcata interferenza con il funzionamento psicosociale, necessitano di un intervento immediato, di cui solo i genitori stessi possono capire l'urgenza, dove spesso siamo costretti ad utilizzare un’alimentazione sostitutiva attraverso il sondino-naso gastrico per ripristinare una situazione sicura da un punto di vista medico. Successivamente, nel contesto del ricovero, lavoriamo per far riprendere ai bambini un'alimentazione spontanea, anche attraverso un intervento psicologico familiare. I genitori, infatti, aiutati da un nutrizionista esperto, rivestono un ruolo fondamentale nel percorso di educazione ai cibi e alla sensibilizzazione ai gusti». Poi, al di là dei trattamenti terapeutici, del lavoro con dietista e con gli psicologi «è necessario per tutti i casi di dna e dca», continua e conclude Abbate Daga, «un reinserimento sociale, trovare uno scopo della vita, trovare un gruppo di amicizie e di conoscenze, anche tramite il fare attività. Oppure, trovare una passione che si sostituisca al cibo come centro di tutto. Lo stare con gli altri, seguire un interesse sono dei coadiuvanti delle cure, e possono diventare moltiplicatori degli effetti della terapia».